Brano tratto dal libro: "In punta di lingua", dello scrittore Cesare Marchi.

demagogia

 

Un candidato alle elezioni tenne un comizio in un piccolo paese, esordì dicendo:

 - Se mi darete il voto, vi farò il ponte”.

Dal pubblico si levò una voce “ Ma non  abbiamo il  fiume”.

E l'altro prontissimo : “ Pure il fiume, pure il fiume ! “

Ecco come il politico sia colto in flagrante demagogia: cioè pur di guadagnare consensi, non esita a promettere all'elettorato le cose più assurde. La demagogia è la degenerazione, il disfacimento della democrazia. Questa è il governo del popolo (démos più crazìa, potere) , quella è un uso distorto delle libertà democratiche che lusinga le masse, stimolando gli istinti meno nobili, promettendo in apparenza il soddisfacimento delle loro aspirazioni economiche e sociali, in realtà per conquistare, grazie al loro voto il potere.   Che non è detto che venga esercitato nella direzione promessa.  La storia conferma che molti capipopolo, arrivati al governo, sull'onda del fervore popolare, hanno cambiato bandiera, instaurando una ferrea dittatura.

Demagogo, in origine, non era una parola di significato negativo. Presso i greci era un eloquente oratore, uno statista, il cui compito era quello di guidare il popolo come assicura l'etimologia, da démos, più ágein, condurre. Aristotele attribuisce alla irresponsabilità dei demagoghi la colpa del passaggio dalla democrazia alla tirannia.

Per far breccia nelle folle, il demagogo non usa un linguaggio geometrico della ragione, bensì quello dell'infuocato dalla passione cui le masse sono più sensibili.

Egli non discute, afferma. Non dimostra, proclama. Se c'è un merito è suo. Se c'è una colpa è degli altri.

Dà confidenza a tutti specialmente agli inferiori perché essi sono la maggioranza e bisogna tenerla buona.

Demagogo insuperabile in questo senso fu Vitellio, di cui Svetonio narra che baciava tutti i soldati che incontrava e si mostrava straordinariamente affabile con mulattieri e con viandanti nelle taverne e nelle locande, a tal punto che al mattino domandava a ciascuno se avesse già fatto colazione, e dava segno, ruttando, che egli l'aveva già fatta.

Al popolo inoltre non bisogna dare le brutte notizie. E se proprio è inevitabile, comunicarle con le dovute cautele.

Il 18 febbraio 1879, morì a Venezia il doge Paolo Venier, penultimo della serie. Ma siccome era carnevale, per non turbare la festa il senato diede la notizia il 2 marzo, in quaresima.

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